Mindfulness Relazionale
MINDFULNESS RELAZIONALE
Una delle critiche fatte alla Mindfulness e, più in generale, alle pratiche di consapevolezza tradizionali che nascono dalla tradizione buddhista, è stata quella di essere una pratica “solitaria”: si medita per proprio conto senza relazionarci con gli altri. D’altra parte anche le pratiche di meditazione, nel senso più ampio del termine, delle altre tradizioni religiose si svolgono in un ambito personale. Le pratiche di meditazione cristiana, infatti, come la Preghiera del Cuore dell’Esicasmo di tradizione cristiana orientale, la moderna Centering Prayer, preghiera di centratura di tipo cattolico che utilizza tecniche buddhiste, come d’altra parte anche la spiritualità Sufi dell’Islam, sono caratterizzate dall’essere pratiche personali che non prevedono una interazione con gli altri. Allo stesso tempo, tutte siano inserite in un ambito comunitario: il Sangha buddhista, la Chiesa, la tariqa sufi.
Ora, possiamo osservare che, nella stragrande maggioranza dei casi, i motivi della sofferenza e, più in generale, dello stress sono legati alle nostre interazioni con gli altri. Dall’ambiente familiare a quello del lavoro, sono le relazioni a determinare i problemi: come diceva Snoopy “amo l’Umanità, è la gente che non sopporto”. Partendo da queste osservazioni, Kramer ha avuto l’intuizione di portare la meditazione buddhista all’interno delle relazioni mettendo a punto un protocollo rigoroso: la Mindfulness Relazionale (MR) o Insight Dialogue.
Una prima osservazione da fare è che la MR permette di osservare in modo diretto quanto la Mindfulness “tradizionale” fa in modo indiretto. Quest’ultima infatti ci permette di vedere in profondità la reale natura della nostra mente con le sue rigidità, le sue distorsioni e le sue reattività attraverso la consapevolezza, la “chiara visione” del nostro modo di essere e pensare. Nella MR vediamo quegli stessi meccanismi all’opera sul terreno molto concreto delle nostre relazioni.
Gregory Kramer è figura di spicco nell’ambito della Mindfulness a livello mondiale e si deve a lui l’intuizione che la vita di relazione è uno splendido osservatorio dove vedere come la sofferenza sia legata alla dinamica di desiderio e attaccamenti e, nello stesso tempo, “campo di battaglia” dove questi operano.
Apparentemente, le nostre relazioni incarnano l’idea che queste siano sempre esplicite, intrise di “velocita” di risposta, immediate nel senso etimologico del termine. A ben vedere, però, esse sono condizionate dagli automatismi legati a pensieri, aspettative, e dalle emozioni. Certamente la MR non è una tecnica per migliorare la nostra comunicazione, né un espediente per “avere ragione”, come dice il famoso libretto del filosofo Schopenhauer. Essa piuttosto si inserisce nella tradizione meditative del Buddhismo.
Esperienze ventennali, in tutto il mondo, hanno confermato che le possibilità terapeutiche della meditazione si sprigionano meglio nel momento relazionale, quando la relazione porta a galla le paure e gli appetiti da cui il nostro io è condizionato e ossessionato.
“Voi parlate quando avete perduto la pace con i vostri pensieri;
E quando non potete più sopportare la solitudine del cuore voi vivete sulle labbra, e il suono vi è di svago e passatempo. E molte delle vostre parole quasi uccidono il pensiero, poiché il pensiero è un uccello leggero che in una gabbia di parole può spiegare le ali, ma non prendere il volo. Tra voi vi sono quelli che cercano uomini loquaci per timore di restare soli. Il silenzio della solitudine mette a nudo il loro essere, ed essi vorrebbero fuggirlo. E vi sono quelli che, senza consapevolezza o prudenza parlano di verità che non comprendono.
E quelli invece che hanno dentro di sé la verità, ma non la esprimono in parole. Nel loro petto lo spirito dimora in armonico silenzio. Quando per strada o sulla piazza del mercato incontrate un amico, lasciate che lo spirito vi muova le labbra e vi guidi la lingua.
Lasciate che la voce della vostra voce parli all'orecchio del suo orecchio; poiché custodirà nell'anima la verità del vostro cuore come si ricorda il sapore del vino. Quando il colore è dimenticato e la coppa è perduta”. K. Gibran
Il protocollo messo a punto da Kramer si basa su sei momenti:
PAUSA
RILASSA
APRI
CONFIDA NELL’EMERGERE
ASCOLTA IN PROFONDITA’
DI LA VERITA’
Come vedremo più avanti, queste non sono fasi successive ma aspetti della pratica che si integrano e si influenzano a vicenda. Vediamoli in dettaglio:
1°) PAUSA: Pausa ha la stessa funzione del tasto pausa della televisione o di una registrazione: interrompe. Interrompe, nel nostro caso, l’azione della nostra mente mettendosi nella posizione dell’osservatore di pensieri, reazioni automatiche, o emozioni senza farsene agganciare, lasciandoli andare. In sostanza, fare pausa vuol dire disidentificarsi da questi, vedendoli non come verità assolute ma come prodotti della nostra stessa mente capaci di condizionarci. In Pausa riusciamo a “vedere” da un osservatorio esterno, l’Io che guarda, l’Io che pensa con le sue produzioni: pensieri, emozioni, ricordi, progetti, etc con lo stesso atteggiamento di chi vede le macchine che passano davanti a casa. Pausa attraversa tutte le fasi della comunicazione: dal parlare all’ascoltare. In pausa smettiamo di parlare, anche internamente, consegnandoci al momento presente, a quanto sta avvenendo. Nel momento ricettivo dell’ascolto, fare pausa vuol dire interrompere quanto la nostra mente mette in atto: critiche, valutazioni, proiezioni, identificazioni, preparazione a quanto dobbiamo dire, etc. Vuol dire renderci conto di quanto la nostra comunicazione sia condizionata. Anche nel momento attivo del parlare ci permette di renderci conto dei nostri condizionamenti: dalla rabbia e dalla aggressività alla ricerca di approvazione, dalla scelta delle parole a quella del tono della voce e dell’atteggiamento del corpo. Pausa è il passaggio dall’attaccamento e dalla avversione a non attaccamento e alla non avversione. Queste modalità di reazione rappresentano infatti, dice la psicologia buddhista, le cause principali della nostra sofferenza. Non a caso anche la cosiddetta terza onda della psicoterapia cognitiva, in particolare l’ACT, mette in evidenza come il mettersi nella prospettiva dell’Io Osservante ci permette di distanziarsi dai nostri pensieri, osservarli e lasciarli andare, come macchine appunto.
Nel momento della Pausa, sperimentiamo la leggerezza del non attaccamento, del lasciare andare tutto: pensieri ed emozioni. In un primo momento c’è la scoperta delle nostre reattività e dei nostri condizionamenti, li possiamo vedere all’opera. Successivamente, nel momento in cui, dopo aver osservato il loro dispiegarsi, non ci opponiamo ad essi ma li lasciamo svanire è possibile assaporare il silenzio ad essi sottesi. Questo aspetto della psicologia buddhista è stato confermato dalle neuroscienze: più ci opponiamo a pensieri, emozioni, distrazioni e più, paradossalmente, le rinforziamo. Quando riusciamo a “lasciare andare” possiamo sperimentare la quiete; quiete che non è l’obbiettivo ma direi “effetto collaterale” positivo del conoscere le cose così come sono. Per usare le parole di Dōgen, monaco del 13° secolo fondatore della scuola sōtō zen, è l’effetto del “lasciare cadere corpo/mente”. “Porta d’entrata” di pausa è il corpo. Esso vive nel presente, non ha passato e non ha futuro. Il nostro corpo non ha aspettative ed è radicato nel presente. Osservare il corpo nei suoi contorni, nel suo essere nello spazio, con le sue mutevoli sensazioni, frequentemente non percepite, vuol dire essere radicati nel presente con l’atteggiamento curioso del principiante; di chi lascia che la realtà si manifesti “così com’è”, senza che la mente operi delle costruzioni fatte di giudizi, aspettative, evitamenti, “mi piace” e “non mi piace”. Se prendiamo contatto con il corpo prendiamo contatto e ci radichiamo nel presente. Il corpo si offre a noi come specchio riflettente le nostre emozioni e i nostri pensieri dandocene una possibilità di conoscenza. È nel corpo che viviamo tutto il ventaglio delle emozioni: la rabbia (“avere il sangue alla testa”, la gioia (“avere le farfalle nello stomaco”), la tristezza (avere la morte in fondo al cuore”), la paura (“la paura mi paralizza”), etc; ed è nel corpo che possiamo rintracciare gli effetti dei nostri attaccamenti e dei nostri evitamenti. In Pausa ne siamo consapevoli e, dalla prospettiva dell’osservatore, li lasciamo andare. Possiamo dire che in Pausa usciamo dalla nostra “zona di conforto”, dalle nostre abitudini consolidate, permettendoci di sperimentare nuove modalità di conoscenza.
2°) RILASSA: In Rilassa abbiamo la possibilità di rispondere, senza reagire, a quanto Pausa ha evidenziato. Abbiamo notato, durante quest’ultima, qualche tensione muscolare? Un disagio diffuso? La fronte aggrottata o una tensione intorno agli occhi? Qualche emozione disturbante? In Rilassa invitiamo il corpo ad ammorbidirsi e nello stesso tempo la mente a calmarsi. Mente e corpo non sono due entità separate ma formano un’unica entità: “se il corpo si rilassa la mente si quieta, se quest’ultima si quieta anche il corpo si rilassa” dice Kramer. Allo stesso tempo, se la mente è agitata da pensieri che continuamente saettano sullo sfondo, è evidente che anche il corpo sarà teso. Una tale tensione somatica e psichica non farà che portare a galla, dal profondo della nostra memoria, i meccanismi di risposta che nel tempo si sono cristallizzati diventando spesso disfunzionali. Certamente non è sufficiente l’”ordine” Rilassa per ottenere calma e quiete: i pensieri continuano a prodursi, a volte con effetti dolorosi, i muscoli resteranno per un po’ ancora dolenti e contratti, la tempesta ormonale e dei neurotrasmettitori ci metteranno un po’ a ritornare nella condizione di riposo. Sono necessarie, per un più veloce ritorno alla condizione di riposo, costanza, pazienza e pratica. La pratica personale di meditazione diviene un fattore essenziale affinché Rilassa si produca. Più la pratica personale si approfondirà e più diventeremo abili nell’identificare nel nostro panorama mentale le emozioni disturbanti. Quando osserviamo lo scorrere veloce dei pensieri, il percepire il nostro rifiuto o la critica nei confronti degli altri, l’attaccarsi alle cose nel tentativo di ottenere un punto di resistenza, in Rilassa sarà possibile sperimentare una diversa maniera di approcciarli. In questo senso Rilassa equivale ad Accetta. Semplicemente accettiamo quanto avviene senza rifiutarlo, combatterlo o negarlo. La psicologia buddhista, come confermato dalle neuroscienze, ci dice che più combattiamo una emozione o un pensiero e più questi acquistano intensità, più li neghiamo e più gli diamo vita e forza. Tutto questo, lo sappiamo, ha una validità nella nostra vita personale; nella meditazione relazionale questo invito a Rilassa ha ancora una ulteriore valenza. Rilassa vuol dire accettare le storie che la nostra mente ci propina, le parole degli altri, le identificazioni con le storie di chi parla e, in linea generale, tutto quello che si presenta nel momento presente durante una relazione. Quando ci rilassiamo, nel senso che abbiamo indicato, saremo più aperti agli altri e, in fondo, anche a noi stessi. Potremmo dire che Rilassa sana quanto Pausa rivela e che questa operazione, dirada la nebbia determinata dalle nostre brame, desideri ed evitamenti. In Rilassa, dunque, tensioni, sofferenza e cambiamento sono accettati e dunque guariti; soprattutto perché ricevuti dalla disponibilità e dall’amore dell’altro. Dunque, rilassa vuol dire accetta e soprattutto sciogli. Osservarli ci permette di avere uno sguardo intuitivo e fresco su di noi, sugli altri e il mondo in generale; capace anche di vedere, oltre ad essi, anche la gentilezza spesso coperta dalle nostre reattività. Paradossalmente, l’osservare i nostri pensieri e le nostre reattività e decidendo di non metterli in atto, la sospensione del giudizio, tutto questo ci apre il campo della gentilezza. Gentilezza che non è buonismo ma profonda accettazione di quanto succede nella relazione, di quanto gli altri ci dicono di noi stessi, nella loro presenza nel momento presente condiviso. Gentilezza che è intimità, disponibilità e contatto internamente con la nostra esperienza ed esternamente con l’altro. Rilassa=Accetta=Sciogli=Ama.
3°) APRI: Apri, insieme a Pausa e Rilassa, sono la base e il centro della MR. In Apri la consapevolezza sperimentata nei primi due momenti si allarga a tutto quello che ci circonda e a cui generalmente reagiamo: il mondo esterno e l’aspetto, le azioni, le parole degli altri. In Apri li incontriamo con la stessa gentilezza che ci siamo concessi nei primi due momenti e attraverso la consapevolezza rivolta all’interno e all’esterno siamo profondamente coscienti di quanto succede nella relazione. In Apri, dunque, inseriamo gli altri e il mondo nel nostro panorama di consapevolezza ed è un passo verso la reciprocità e quella integrazione particolare che Panikkar definiva “interessere”. Forse abbiamo già sperimentato questa sensazione camminando in un bosco ed improvvisamente ci siamo sentiti in profonda comunione con gli alberi, il cielo o gli uccelli. Oppure, come riferito da una partecipante ad un ritiro “Ero seduta sulla spiaggia sulla battigia dove rompevano piccole onde. Improvvisamente ho distintamente percepito che non c’era nessuna separazione tra me e le onde, io sentivo di essere lo stesso mare e le stesse onde. Nessuna separazione. Contemporaneamente, queste percezioni si associavano ad un grande senso di libertà”.
Certamente, in un contesto relazionale, Apri può risultare difficoltoso: il portare gli altri nella consapevolezza può allo stesso tempo darci egoismo e generosità, reattività e possibilità. Scopriamo il nostro sé più profondo dove questi aspetti coabitano insieme: evitamenti ed attaccamenti da una parte e, dall’altra, disponibilità e apertura. È la scoperta della nostra realtà più profonda: angeli e demoni nello stesso tempo. La consapevolezza interna ed esterna di Apri ci permette di coltivare una mente elastica capace di viaggiare dalle sensazioni interne a quelle esterne, dalle percezioni fisiche all’osservazione della persona che ci sta parlando, dalle nostre reattività, come identificazione e rifiuto, ai contenuti del dialogo e dell’altra persona con le parole che sceglie, il suo modo di essere. Apri ci permette di praticare il non attaccamento, al lasciare andare sullo sfondo aspetti interni ed esterni. Tutto questo può sembrare artificioso ma, a ben vedere, si tratta solo di osservare volontariamente, e insieme in modo equanime, quanto fa abitualmente la nostra mente: in pochi istanti passiamo dall’essere persi nei nostri pensieri alla percezione del trillo della suoneria del telefono che ci chiede di rispondere. In Apri queste percezioni diventano coscienti e consapevoli: diventiamo capaci di osservarli senza esserne ostaggi. Ci rendiamo che tutto il panorama è, detto in modo buddhista, anattā e anicca, transitori e inconsistenti. Nel momento relazionale si crea quanto Kramer definisce come “intimità non costruita”, nel senso che non è condizionata dall’attaccamento e/o avversione ma in cui si crea una vicinanza in cui tutto quello che avviene all’interno della relazione viene accettato pienamente. Non che questo sia facile o agevole in quanto spesso tutti noi abbiamo messo a punto strategie di “sopravvivenza” dell’Io che prevedono la resistenza ad aprirsi. Forse, nella nostra vita siamo stati feriti o abbandonati e dentro di noi scatta il meccanismo “non succederà più”, “ecco quello che succede ad aprirsi”, “Perché mi devo aprire? Solo per vivere ancora il dolore dell’abbandono?”. Possiamo avere tale tendenza a chiuderci quando siamo in presenza di qualcuno che ci attacca o con cui siamo in conflitto. Percepire tale ostilità con consapevolezza ci può permettere di osservare la nostra tendenza a chiuderci e, nello stesso tempo, a considerare tutti gli uomini affetti dalla stessa complessità, dalla stessa sofferenza e vulnerabilità. Ciò permette di far emergere la compassione per noi e per tutti gli altri. Nella relazione siamo “toccati” e il contatto percepito può determinare una attivazione verso la fuga dovuta alla paura, oppure compassione se sperimentiamo l’equanimità, oppure ancora solo conoscenza pura del contatto stesso. Conoscenza che ci porta a diluire e rendere meno percepito il confine tra noi e l’altro, tra noi e il mondo. In questo senso resta, sempre meno forte, il confine del mio Ego che riusciamo a percepire come un’illusione, come un effetto del tentativo di eliminare la sofferenza. Operazione non facile dato che abbiamo creato il nostro sé nel corso della nostra intera vita ma che lentamente ci porta ad “esperire l’esperienza” solo come consapevolezza in sé, consapevolezza pura senza nessuna specificazione. Allora, se il nostro se non è così coriaceo e granitico possiamo cominciarlo a vedere come un processo in cui pensieri, sensazioni, percezioni, giudizi etc cambiano continuamente. Dice la psicologia buddhista noi stessi siamo un flusso, un processo in continuo divenire.
4°) CONFIDA NELL'EMERGERE: Confidare identifica la piena fiducia necessaria ad immergerci in quello che l’emergere indica: il processo continuo di cambiamento con cui la realtà ci si presenta. Anche la realtà più complessa e apparentemente stabile è il frutto di una serie di fattori che la determinano e la condizionano. Possiamo cominciare a vedere il manifestarsi di questo processo se osserviamo come i nostri pensieri non siano che il frutto di altri pensieri, ricordi ed emozioni. È l’invito a non contrapporsi al cambiamento continuo senza essere condizionati da un fine. Entrare in questa fase vuol dire lasciare andare il controllo, così faticoso, su relazioni, aspetti pratici come quello che vogliamo dire, o le aspettative di una conversazione. Vuol dire non mettere limiti, entrando nel mare delle possibilità e soprattutto di una nuova modalità di esistenza. È interessante notare che il termine emergere viene, attraverso il latino, da una radice sanscrita che vuol dire “apparire nelle linee fondamentali”. In questo senso l’emergere è la realtà depurata da valutazioni, proiezioni, attaccamenti ed avversioni: la realtà “così com’è”.
Il genere umano, nel corso dell’evoluzione, ha sviluppato grandi capacità di apprendimento, di fare previsioni, recuperare dalla memoria situazioni analoghe a quelle che stiamo vivendo proponendo le stesse risposte. Allo stesso tempo possiamo prevedere il futuro ben sapendo che, in effetti, non abbiamo nessuna certezza su quando ci succederà da qui a 1 giorno, 1 mese, 1 anno. In effetti, non siamo nemmeno in grado di prevedere quali pensieri si affacceranno alla nostra mente tra 1 minuto. E, ovviamente ancor meno, siamo in grado di prevedere cosa sorgerà nella mente degli altri. Il nostro cervello, ci dicono le neuroscienze, “congela” la realtà per poterle dare un senso e inserirla, spesso forzandola, all’interno di un quadro di riferimento che nel tempo ci siamo creati. Questo al fine di poterli controllare. Ognuno di noi arriva al momento dello scambio dialogico con le sue tensioni, i suoi condizionamenti, le sue emozioni ed i suoi pensieri. Come dice Kramer, le previsioni ci riempiono di ipotesi ma non di verità.
Queste capacità hanno però un prezzo: siamo diventati “complicati”, con un Ego pieno di concetti, spesso pre-concetti preconfezionati, e norme e aspettative sociali spesso fuorvianti. Tanto che spesso anziché incontrare gli altri incontriamo le nostre proiezioni e previsioni. Confida nell’emergere ci invita a lasciare i nostri attaccamenti e le nostre rigidità e soprattutto le nostre descrizioni e valutazioni della realtà; accettando la realtà in continuo cambiamento mettiamo sullo sfondo i condizionamenti dovuti ai nostri ruoli sociali e alla nostra personalità. Allora, forse sarà meglio e più produttivo lasciare andare la tentazione del controllo e confidare nella nostra capacità di affrontare la realtà così com’è una volta che avremo lasciato la mente libera dai condizionamenti e dalla necessità di controllare. Controllo che spesso ci è sembrato necessario e utile per difenderci dalle insicurezze dell’ambiente esterno, gli altri, e interno, le nostre emozioni. Tutto questo non ha nulla a che vedere con un atteggiamento irresponsabile di chi si mette alla finestra, quanto piuttosto attiene al riconoscere l’impermanenza e i cambiamenti continui di tutti i fenomeni. Ci “arrendiamo” al cambiamento e accettiamo con coraggio di essere cambiati da questo.
5.) ASCOLTA IN PROFONDITA': Ascolta in profondità cala sul terreno preparato dalle fasi precedenti. Se Pausa-Rilassa-Apri ha predisposto la strada creando una presenza piena del momento presente, Confida nell’Emergere ci ha posto davanti alla mutevolezza della realtà e dell’atteggiamento da tenere, è arrivato il momento di calare il dialogo nel “cielo terso della consapevolezza”: è il momento di ascoltare e parlare. Ascolta in profondità è l’invito ad ascoltare con la consapevolezza che le fasi precedenti hanno preparato; è il campo della ricezione, “toccato” dalle parole e dalle emozioni”, di ciò che chi parla offre alla nostra sensibilità. Accettiamo quanto l’altro ci offre senza interferenze del nostro chiacchiericcio interno. Siamo liberi, nell’ascolto, da ogni intenzione o fine. Liberi dal dover trovare qualcosa per rispondere, catalogare, calmare, etc. Quanto ci arriva dall’altro nasce da un pensiero o da un’emozione e viene veicolato e, nello stesso tempo, condizionato attraverso le parole. Così come il condizionamento è all’opera nel momento in cui riceviamo le parole che chi parla ci invia. Nella vita di tutti i giorni, nelle nostre comuni interazioni questi processi di condizionamento ci sfuggono e non ci rendiamo conto di quanto nell’ascolto mettiamo in atto. Così come non ci rendiamo conto che spesso “entriamo” nella storia degli altri che riverberano dentro di noi, identificandoci o giudicando. Esiste una linea molto sottile tra l’empatia di chi condivide una sofferenza e una autorefenzialità che pone chi ascolta nella posizione del giudizio. Quando ascoltiamo le parole che ci veicolano qualcosa di profondo, spesso queste fanno risuonare dentro di noi vissuti analoghi. Se ciò avviene nella consapevolezza, potrò evitare di perdermi nelle mie fantasie, identificazioni, reazioni, giudizi, etc. Per dirlo con le parole di Kramer, “Mi posiziono al confine tra risposta empatica e la consapevolezza non identificata”. Altrimenti, quanto scambiamo per verità non è altro che l’effetto della contaminazione che abbiamo messo dentro le parole dell’altro: la nostra verità non quella di chi parla. In Ascolta prestiamo un’attenzione consapevole al significato di quanto l’altro ci comunica, alla scelta delle parole e all’uso del suo corpo nella comunicazione, il cosiddetto linguaggio non verbale, il tono, il volume, la velocità con cui si susseguono e le pause. Prestiamo poi attenzione alle emozioni che il racconto ci determina e cerchiamo di essere presenti a come il nostro corpo le registra. Nello stesso tempo evitiamo di concentraci su i singoli particolari ma di avere una consapevolezza piena e onnicomprensiva, di seguire il flusso della comunicazione. In sostanza tutto ciò non è molto di diverso da quanto facciamo nella meditazione: osserviamo il flusso delle sensazioni e dei pensieri in modo consapevole. È consapevolezza rivolta all’esterno e a quanto questo ci tocca. Osserviamo, a 360 gradi, come è questo tocco sulla nostra parte più profonda. Tutti i vari aspetti, interni ed esterni, che abbiamo appena accennato sono la base della consapevolezza nella comunicazione e ci possono portare ad osservare il sorgere, il suo breve esistere e l’estinguersi dell’esperienza: è la scoperta della impermanenza e del vuoto. Ci insegna anche a vedere in profondità dolori e gioie che sono alla base dell’esperienza umana, permettendoci di far emergere la compassione verso la complessità nostra e degli altri. In quest’ottica sarà possibile percepire come tutti abbiano qualcosa da insegnarci. Questo, poi, sarà tanto più possibile e facile in base a quanto il silenzio sarà presente, e da quanto, in esso, sia possibile sperimentare la nostra capacità di ricevere. Permettiamo di lasciare sullo sfondo il nostro ego che non è più il centro dello scambio comunicativo e anche il controllo viene lasciato andare: non sono più io il centro con i miei desideri, le mie paure, le mie paranoie e i miei pensieri. È una modalità senza sforzo in cui ci apriamo al qui e ora, dove l’io tende a diventare diafano e inconsistente. Contemporaneamente, è possibile vivere e condividere un senso profondo di unità con gli altri, uno spazio abitato da gentilezza, apertura e accettazione. In questa fase Pausa diventa continua, Rilassa è accettazione, Apri diventa reciprocità e generosità, Confida è apertura e accettazione del cambiamento. Un buon esercizio per vedere la nostra mente e i nostri condizionamenti all’opera può essere quello di osservare cosa succede alla nostra mente anche nei dialoghi convenzionali: cosa succede quando ascolto? Che reazioni di aggressività, spesso segno di evitamento, sorgono dentro di noi? Cosa succede quando gli altri parlano? Stiamo preparando la risposta, prima ancora l’altro abbia finito di parlare? Vado a incrociare le informazioni che mi arrivano con miei vissuti precedenti? Mi ci identifico oppure li rifiuto, espressione di non accettazione delle mie stesse precedenti esperienze?
6°) DI' LA VERITA': L’invito a Dì la verità della MR rappresenta una sintesi efficace del percorso proposto dal Buddhismo e coinvolge i diversi aspetti del suo Ottuplice Sentiero, soprattutto Retta Parola. Certamente Retta Parola ci indica che questa deve essere vera, essere quello che noi sentiamo veramente. La parola verità suscita subito il silenzio del Buddha davanti la domanda se esistesse Dio o l’anima oppure quello di Gesù a Pilato che gli chiedeva cosa fosse la verità. Questa è, inevitabilmente, la verità personale dato che le neuroscienze hanno dimostrato che la Verità in senso assoluto non esiste. Questa non può che essere personale e venire solo dal profondo di se stessi. L’analisi di questo tema ci porterebbe lontano, è sufficiente dire che nella tradizione buddhista, in accordo con le neuroscienze, la verità può nascere dal silenzio del nostro profondo, quando le parole dell’Ego tacciono ed emergono solo quelle che arrivano attraverso il silenzio. Deve, altresì, essere consapevole di quanto avversioni e attaccamenti la inquinino e come le emozioni che danzano al di sotto di esse le influenzino. Deve essere una parola che non contenga calunnie o accuse tali da creare un disaccordo, ma anzi scegliere parole che promuovano l’armonia. Il modo con cui esprimiamo la nostra verità non deve utilizzare parole dure, offensive, ma piuttosto usare la stessa gentilezza che riserviamo a noi stessi. Le parole dure o offensive quasi sempre nascondono le nostre avversioni e la nostra rabbia. Infine, esiste una economia della parola, sia nel senso di una essenzialità del parlare sia in quello della scelta anche del quando parlare, la scelta del momento in cui parlare sia la utilità di quanto diciamo. Tutto questo ci porta a dire che Di la verità è parlare con consapevolezza nel senso di conoscere i nostri pensieri ed il loro arrivare e scomparire, le emozioni, sentire il corpo e le sue azioni attraverso il movimento delle labbra, della lingua e le sensazioni dell’aria che entra ed esce. Ma ciò sarà possibile se, come dicevamo, sapremo la nostra verità. E questo avviene solo in presenza di una mente calma e spaziosa che ha abbandonato, attraverso Confida, ogni attaccamento e avversione, e sarà sorta la chiarezza che ci permette di osservare la “nostra” verità. Verità che, come ogni realtà, si presenta mutevole; come diverse sono le parole che possiamo usare per comunicare la nostra verità. Diverse sono anche le direzioni che può prendere il nostro discorso. Nello stesso tempo le parole non possono rendere appieno il senso della nostra esperienza e le infinite sfumature; resta dunque la consapevolezza dell’insufficienza della comunicazione. Le parole, infatti, sono rappresentazioni parziali: esse indicano la mappa ma non certo completamente il territorio in quanto rappresentazioni concettuali dell’esperienza. Inoltre non dobbiamo sentire l’obbligo di dire quanto non ci sentiamo di dire per qualche motivo o perché non appropriato al momento presente. Tutto questo indica la capacità di discernere e anche, se vogliamo, il rispetto che dobbiamo agli altri e a noi stessi. Infine, come con gentilezza abbiamo ascoltato, con gentilezza dobbiamo parlare, evitando parole aspre, dure o utilizzate come armi nei confronti degli altri per ferire. Introdurre Pausa può evitarci quel fiume di parole che spesso caratterizza la nostra comunicazione, fiume da cui siamo trascinati via permettendo ai nostri automatismi di prendere il sopravvento. In Dì la verità, dunque, prima di parlare prendiamoci del tempo (Pausa) per “leggere” le nostre sensazioni corporee, i pensieri che vorremmo comunicare, quali parole stiamo per usare, sentire se queste presentano la freschezza che è segno di spontaneità. In Dì la verità lasciamo operare il discernimento, la capacità di operare un giudizio di cosa dire, come dirlo e soprattutto se dirlo. Certamente questo presuppone una sorta di “educazione” nel senso di essere in rado di accedere ad un livello di profondità; come apprezzare un quadro astratto o una sinfonia di musica moderna. Può essere arduo ma con il tempo diventiamo capaci di farci permeare da queste forme artistiche. Questo vuol dire anche concederci qualche errore ed accettarci con gentilezza anche nei nostri sbagli. Tutto questo può far emergere, come verità, anche quello che non ci siamo mai permessi di confessare nemmeno a noi stessi.